mercoledì 28 novembre 2012

Per Antonio Nardi






Caro Antonio, Caro Edoardo,
avevo pensato di scriverti fingendo con me stesso di poter continuare a parlare con te come sempre, come se nulla in questi giorni, dall’ultima volta che ci siamo visti, fosse accaduto. Pensavo di potermi tardivamente inserire nelle questioni sul mondo greco-romano che, quasi, sequestrarono te ed Edoardo, mentre io, ammirato da tanta passione, fra una portata e l’altra, seguivo incuriosito. Anzi, ti dirò, mi ero quasi inteso di confutare – con l’evidenza degli ultimi giorni –  il vostro Seneca, proprio su alcune considerazioni che – guarda caso –, sulla morte, ricorrono qua e là nelle sue opere. Del resto, ho pensato, se la morte è un fatto sociale, perché si muore agli altri (essendo a rigore impossibile venire meno a se stessi – come giustamente sostiene il Gentile –), continuiamo dunque i nostri ragionamenti, come se Lei non fosse passata. Come se Necessità ancora non avesse deciso. Intendevo, caro Antonio, caro Edoardo, seguitare allora codesti nostri ragionamenti, ma – eppure già lo sapevo – è impossibile: tu non mi rispondi. Il mio cuore voleva piegare a sé la ragione e condurla su una via impercorribile. La realtà, quale che sia, quando è decaduta a fatto, non si piega. È e resta quella che è, inesorabilmente. Ci sei ancora, ma stai lì davanti e mi guardi, muto; oppure attraversi la piazza, mi vieni incontro… Sei, oramai, come gli altri amici e maestri che già se ne erano andati, e ai quali, primo Gian Lorenzo (del quale ben sai), continuo a rivolgermi interrogando senza ottenere risposta, se non quella che, fingendomi loro, con due parti in “commedia”, ottengo da me stesso. Così, come vedi, come vedete, il deserto cresce all’intorno, il coro delle voci pian piano conquista il silenzio e di alcune mi rammento solo lontana eco, distorta dalla memoria che invecchia, anch’essa fatalmente, fino a che cesserà, come tutto quel mondo.
E, d’altra parte, perché la ragione, per rivolgermi a te, caro Amico? I pensieri si perdevano per strada annodandosi confusamente fino a risultare contorti, inestricabili; così le citazioni, necessarie cerniere dei ragionamenti su certi autori, suonavano oramai fuori luogo. Non potevo, quindi, che scriverti col cuore, coi sentimenti, con la nostalgia. Del resto, “costì”, ne sono certo, la tua ragione, troverà ben altro pane per i suoi denti, tanto, quasi quanto la tua Fede troverà luminosa soddisfazione. Così, pensandoti come non mai, ho ritrovato nella memoria ricordi lontani, della primissima infanzia – forse ancora non andavamo a scuola –, mi sono rammentato, attraverso immagini vividissime, del tuo bel cinturone, con fondine e revolvers, di cui (forse anche rendendomi ridicolo, vista la circostanza) ho anche scritto a Carolina; del “gorello” che attraversava i campi di Bruno; degli allori su cui salivamo nel “boschetto” vicino casa, fra le residue macerie dei bombardamenti. Ho rammentato, purtroppo oramai senza poter condividerlo con te, l’odore particolare che aveva l’Ombrone, quando calava l’acqua per il caldo e le pozze restavano leggermente colorate per gli scarichi della cartiera.  Ho rivisto con chiarezza cristallina tuo padre, Dino, tua madre, Luca, e la piccolissima Amelia, in una piazza di paese assolata che pareva una tela di De Chirico, delle migliori. E poi, molto dopo, ho ben presenti le nostre lunghe passeggiate domenicali, ora su un bagnasciuga invernale, dal molo al Lido di Camaiore, o più spesso a Lucca, sempre in brumose mattine, per antichità o per il solo piacere delle vie cittadine. I banchi dei librai, lungamente. O, ancora, ad esplorare, scavalcando come ladri la recinzione, ciò che resta dei fasti di Villa Calderai, luogo misterioso sui colli di Santomato,  che esercitava in te una forte, inspiegabile attrazione.
Poi, la memoria, si è fatta recente, al tempo in cui la tua malattia ha acceso in te fondati timori, paure giustificate, oscure premonizioni. Cercavi di far scorrere ogni cosa fra gli argini della normalità, ma ogni tanto affiorava qualcosa, come se una spina crudele, ad ogni movimento, fosse lì ad avvertire della propria presenza rovinandoti l’ora, la serenità del momento. Sapevi nascondere bene, Amico mio, dietro a quella forzata, voluta normalità di comportamenti, di lavoro.
Solo i più attenti e sensibili fra i tuoi interlocutori si sono accorti che quel tuo blog era una sorta di specchio, forse. Come dire: una finestra attraverso cui guardare dentro, attraverso cui accorgersi di un’altra realtà, di una esistenza, di occhi e sentimenti differenti attraverso cui guardare il mondo. E tu, di là, dettagliavi ogni giorno con particolari, quella sorta di autoritratto, alla realizzazione del quale ti industriavi complicando e chiarendo a un tempo, aggiungendo piani differenti: gli strati di una personalità ricca, complessa, nella quale anche gli elementi occasionali, incidentali sono sottoposti ad una elaborazione, vagliati da un ricco filtro culturale e da rigore etico. Certo a qualcuno sarà parso narcisistico, auto celebrativo, vedere tutte quelle foto, alcune, talora, anche “private”, ma io, caro Antonio, so benissimo che non è così. So benissimo che quando si sbircia attraverso le imposte socchiuse può accadere di scorgere un attaccapanni o dei piedi sul bordo di un letto. Era, per te, credo, ogni volta la conquista di un giorno, come pizzicarsi per sincerarsi dello stato di veglia, per sincerarsi della propria corporeità, quando se ne avverte, come nel tuo caso, la condizione precaria. Ed era un modo per affermare, attraverso gli scritti: – Eccomi! Sono qua! Sono questo!
Così, negli ultimi mesi, oltre ai pensieri sulle nostre quotidiane bagattelle (italiche e locali), hai scritto anche pagine di acuto senso morale, hai fustigato i costumi con ironia, hai lasciato impronte significative delle tue capacità come scrittore, del tuo pensare profondo e della tua Fede sicura, senza incertezze – invidiabile –.  
Rendo pubblica questa lettera nella convinzione che ti faccia piacere, intendendola come un umile, minimo riconoscimento al tuo valore, che va ben oltre l’affetto. Un modo, questo, ancorché limitatissimo, per richiamare quanti, preoccupati di realizzare i propri “disegni” clientelari, le proprie “esigenze” di bottega, finsero di non vedere quanto valevi e ti ostacolarono in ogni modo possibile, privilegiando insipienti e mediocri.
Gli Dei sono stati più forti e decisi nel chiamarti a sé. E noi, che non ti meritavamo, non siamo stati capaci di trattenerti (impotenti di fronte a quella Necessità, cui lo stesso Giove deve obbedienza) proprio ora che il bisogno di persone di prim’ordine si fa più sentire. Così, oggi, mio Caro, siamo tutti più poveri, e non solo perché se n’è andato un amico!
Un abbraccio,
Tuo,
umberto



P.S. Mi rivolgo, nella lettera, anche a Edoardo Bianchini, http://quarratanews.blogspot.it/ , da decenni amico di Antonio Nardi. Assieme a Lui e ad Antonio, il 9 u.s., abbiamo passato una bella serata – è a quella che ho fatto prima riferimento –. Ad Antonio, con una malcelata punta di amarezza premonitrice, è piaciuto chiamarla “ultima cena”.
 
Per notizie bio-bibliografiche su Antonio Nardi: http://blog.studenti.it/domenicalaura/


La foto, scattata il 13 maggio 2011, è di Francesca Cecconi.