lunedì 20 ottobre 2014

EDOARDO SALVI - La Casa di Gello illustrata


Riproduco qui, in una sede certo inadeguata e impropria, il ricco e gustoso testo con cui Tristano Ilari*, spiega con dovizia, attraverso un raffinato gioco di richiami artistici e letterari, sciolti con sottile ironia nel divertimento di un linguaggio assai singolare, le opere con le quali Edoardo Salvi, pittore, incisore e saggista, ha decorato gli ambienti della Casa di Gello, una struttura che da due anni ospita “alcuni soggetti autistici adulti”. Il ciclo decorativo, commissionato all’autore dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Pistoia e Pescia, è stato presentato al pubblico venerdì 17 ottobre 2014.


* (pseudonimo dietro al quale – immagino – “cerca” di nascondersi, per il pudore che lo caratterizza, Edoardo Salvi)


LEGGENDA

Orbaneja, un pittore di Ubeda, a cui fu chiesto che cosa stesse dipingendo, rispose:”quel che ne verrà fuori!” E un’altra volta dipingeva un gallo, ma così brutto e poco somigliante che gli si doveva scrivere accanto in lettere gotiche: “Questo è un gallo”.

                   Miguel de Cervantes,
                Don Chisciotte della Mancia

 
                                                                                     

 
In quel mondo sobillato da incantatori d’ogni specie dove primeggiano arcifanfani, guastafeste e rompiscatole, vi sono pure incantatori benevoli, propizi a sollevare dalle più provate spalle un po’ del carico gravoso delle loro pene, a favorire i desideri covati negli animi più virtuosi e a dare forma e figura a certe graziose immaginazioni che volano a mezz’aria. In quel mondo c’è una casa spuntata per incanto laddove cadono certi lembi del verde manto di Appennino, e dove Ombrone suo figliolo si è da lungo tempo fatta la propria strada con caparbietà, superbia e rassegnazione. La Casa, detta di Gello, è posta sotto la giurisdizione di Lucerno Rondone, ludoarconte o arcolude delle terre di Buonavolontà. Lucerno, rampollo d’una pianta che si dice millenaria e sua moglie Agrifoglio Liberanosamalo, ebbero occasione di ospitare con sommo diletto l’arciillustrissimo Don Alonso Chisciano e il suo scudiero di ritorno da Lucca, ascoltandone sentenze e ricavandone insegnamenti dei quali avrebbero fatto tesoro. L’incontro con il cavaliere dalla triste figura suscitò nell’immaginazione dei signori di Buonavolontà un insieme di fantasie ed invenzioni, che richiedevano di essere delineate e messe in tinta in maniera conveniente e in vivide forme per decorare la suddetta casa. Toccò invece a un creato di quel tale Orbaneja, autore di più di sette insegne nella città di Ubeda, dipingere l’insieme delle storie, ovverosia capricci, rendendo oltremodo necessaria quanto gravosa la spiegazione di quelle. All’impresa si disposero graziosamente gli stessi arcoludi dalla cui viva voce intesi, se non tutto e se non abbastanza, almeno quel poco che con qualche approssimazione ho cercato di trascrivere. Secondo l’intenzione di Lucerno e Agrifoglio, si dovranno intendere le tavole applicate sulle pareti della Casa di Gello quali pagine da considerare di sfuggita nei momenti d’ozio, suscitando qualche fantasia consolatrice al pari di una perfetta indifferenza o mutevole senso di fastidio, a seconda dell’indole e della complessione del riguardante.

 


Ecco dunque in principio raffigurati in un tondo la Vera immagine del cavaliere mancego con il suo ineluttabilmente fido Ronzinante, nonché il più eletto fiore, ovverosia ortaggio degli scudieri, il mai dimenticato Sancio Panza, capace al pari di Pinocchio di intendere e parlare il dialetto asinino e di scambiare con il proprio asino le più tenere effusioni (tav.1). Insegnò Don Chisciotte a vedere al di là della superficiale apparenza gli esseri più fragili, come in effetti ogni virtuosa persona è tenuta a fare. Avendo pieno diritto gli avversati dalla fortuna di figurare in bellezza e nobiltà nel loro mistero, penetrabile a chi ha avuto per dote naturale, o per forza di educazione l’attitudine allo sguardo interiore. Mantenere la massima dignità nella perdita dell’equilibrio fu per Don Chisciotte, campione dei senza campione, merito incommensurabile. Principe degli squilibrati, vessillo degli squinternati, nessuno fu grande come lui nella caduta e nella disfatta. In tal senso sono state figurate, per derivazione, due immagini di Equilibristi o Saltimbanchi incuranti delle leggi di gravità e intenti a considerare il mondo dal basso elevando verso il cielo le loro basi o piante o radici, sostenuti da fedelissimi cani che non disdegnano per fedeltà l’inusitato gioco (tavv.2, 3). Come per tutto è vulgata la voce, nessuno fu come Chisciotte maestro dei perdenti, stella polare degli abbattuti, luce dei frastornati, scudo degli abbarbagliati. Ossuto simulacro tendente alla linea retta spedita sulla via dell’infinito anzi, sogno stesso della rettitudine in quelle vaste lande, dove il groviglio inestricabile ha soppiantato perfino le vie dei più capziosi rabeschi.

 
A temperare la giustizia irruenta di Chisciotte e gli anarchismi spaziali degli equilibristi sia benvenuta la circospetta Tartaruga, a prima vista più indolente di Sancio (tav.4). Essa conforta i volontari o inconsapevoli adepti del cavaliere errante ispirandogli, col flegma tartarughesco, il poco conto in cui si debbono tenere le avversità, resistendo con la corazza forgiata per ognuno di noi dalla natura all’impeto delle grandinate e al turbine delle legnate. Armatura che non si toglie, ferma e sicura come la sapienza, la corazza della Tartaruga sostiene il peso del destino terragnolo illuminato dal globo lunare che permette di farsi strada nel buio dello sconforto. Quando poi tale sconforto è indotto dalle questioni di lana caprina, dalle quisquilie cresciute come montagne, dalle tensioni in procinto di spezzare i filamenti dei nervi, gli illuminati e mansueti arcoludi ordinarono al discepolo di Orbaneja la tavola del Torneamento (tav.5). In essa i campioni dei contendenti sono e saranno nient’altro che automi melanconici, non uomini e cavalli in carne sangue ed ossa, ma fantocci velati di mestizia che dovranno cozzarsi incocciarsi spezzarsi affettarsi scaraventarsi gli uni sugli altri e gli altri sugli altri ancora, per poi ricomporsi con bizzarro disordine ricominciando da capo fino a non poterne più, trovando finalmente l’accordo per avvenuto sfinimento che è sorgente di anelata concordia. Comandò l’arconte Lucerno due Allegorie canine che niente avessero del canagliesco, bensì fossero insignorite al rango d’un Can Signorio o d’un Can Grande e, come tali, atte a dominare la disputa della canea, il sopruso della ribalderia, l’insolenza dell’uccellatura (tavv. 6,7). Nell’una delle due tavole si vede un cane rovesciato posto a significare quel che ogni riguardante vorrà discernere, considerando a scusante dell’autore ch’egli lo pitturò sotto l’imperio della canicola, annunciata appunto dalle coppie di cani. Il connubio delle edificanti significazioni riposte nell’impresa canina, valgono altresì come incitamento all’agire dell’umano consorzio in specie nella vigilanza fedele, nella grata
 
 
amicizia, nella memoria odorifera, anche se merita riprovazione il connubio tra fame e golosità. L’osservatore attento potrà poi scorgere una parete rimasta bianca, sulla quale incombe come esempio di candore virginale l’Opera Assente, gravida di ardui concetti e interni travagli. Sia per non tradirne lo spirito, e ancor più per averne io dimenticato gli esatti termini, distratto, come fui, da un pappagallo dell’arcolude intestardito nel recitare certe litanie, passo senz’altro ad illustrare il successivo capriccio intitolato La solitudine del satiro, o La solitudine di Pan, stante una certa confusione generata tra i due personaggi (tav.8). In omaggio alla terra di Chisciotte, l’arconte prefigurò un retablo vastissimo, interrotto poi al primo ordine di cinque scomparti, a causa delle disposizione contenute nella Dieta degli arcoludati. Al centro si vede l’uomo caprigno seduto alla sommità di un’ara intento a suonare un flauto, le cui canne sono esempio di universale armonia alla quale concorrono le diversità tutte. Le corna del satiro saranno allora le corna raggianti del sole che vivificano di luce ogni creatura. Il satiro caprigno, taumaturgo liberatore dagli stati febbrili, se sconcertò la ninfa sua madre e tutti i supponenti arriccianaso, fu ben accolto dal padre suo Mercurio, grazie al quale rallegrò con voce bizzarra il serioso Olimpo e in specie Dioniso. Negli scomparti sono figurate colonne tortili a mo’ di finte gabbie dove candidi ed ignari putti giocano con gli uccelli, una figura umana formata dalla vegetazione di un giardino e ancora una campagna, dove il ragno tesse la propria Palmanova e un satiro trasporta un sileno assonnato e restio ad ogni impresa. L’arcolude impose insomma all’autore di figurare una favola silente, della quale se pure ho perso il filo, ricordo il senso riposto nel favorire quanti coltivano e si prendono cura del sogno ispirato dal mondo naturale, che potrà essere reinventato solo dai marginali periferici, più prossimi di tutti all’antica officina centrale della creazione. Di fronte al retablo interrotto vedi il Lunettone occupato da certi corpi femminili, fluidi e pieghevoli al pari del salice, usciti chissà come da certi vasi apuli dissotterrati nella città di Ruvo (tav.9). Quei corpi teneri scanalati a mo’ di buona pasta rigata ed impastata con l’acqua della buona voglia si prendono cura delle galline, carni di facile digestione e creature di debole considerazione, eppur dotate di insospettato vigore appena si rendono capaci di alzare la cresta, vincendo il sopruso esercitato dai dominatori d’ogni piccolo e grande pollaio. In certi corridoi della Casa di Gello si avrà poi modo di incontrare proprio la tavola degli Incontri (tav.10). Corpi di adolescenti e ombre di corpi, solidi e meno solidi, poco più che ombre. Indifferenza, qualche sospetto, timidezza, ritrosia, e poi bisbigliare e farfugliare e un certo armeggiare, un innocuo brigare. Poi c’è L’animazione (tav.11), duduf dududuf, un tenersi bordone, un
 
 
cogliombereggiare ballando e saltando, e pulcinellando provarsi provare a fare Sfessania e Cuccurucù. L’arcolude spiegando non disse di più, ma l’arcoludessa, che pure acconsentiva con discreti battiti delle ciglia alle parole del consorte, volle metterci del suo è ordinò che quella danza buffa e grottesca si tramutasse in qualche distinta evoluzione, altrettanto bizzarra ma più ariosa e ordinata, come poteva ottenersi da una giocosa equinomachia. Il seguace di Orbaneja condusse alla propria maniera due tavole dove intese figurare la liberazione del cavallo dalla propria condizione di servo di Marte, di Mida, di Mercurio e da tutte le infauste conseguenze del peccato originale. Giocando maldestramente sul significato di equus, le intitolò Equanimi danze acrobatiche (tavv.12,13). Sostennero gli arconti come la bella compagnia del cavallo avesse un effetto portentoso, liberando in certi uomini l’energia, il senso dell’armonia e il piacere della convivialità, compressi dal quel famigerato mago Frestone che tanto nocumento già ebbe a recare a Don Chisciotte. Sulle tre tavole dedicate alle Storie di Pinocchio i ludoarconti intrattennero una dotta conversazione, parecchio aumentata dall’intervento delle menti più elette della corte (tavv.14,15,16). Si parlò di metamorfosi, di incarnazione, di passione, di menzogna e verità, di disobbedienza e di castigo, di derisione, di incostanza, di pentimento e finalmente di passione, morte e resurrezione. L’arcolude concluse saggiamente che si dovesse senz’altro ritrarre Pinocchio nel modo più franco e libero da reconditi significati, per due volte insieme ai suoi tentatori e una volta in compagnia della sua incomparabile protettrice. Il sogno di un ricordo o, se
 
 
vuoi, un ricordo sognato qual si addice alla complessione arcana di taluni giovani amici dei ludoarconti, unisce lungo la strada di un paese lucente, alcune figure che l’autore pretese, addirittura, di delineare e tinteggiare nientemeno quali apparizioni (tav.17). Nella tavola vi sarebbero, a sentir lui, melanconia, mansuetudine e un grano di follia, tutte condizioni non solo tollerate ma accolte in un paese abbastanza felice. La Puerizia col manto rosso sogna di smuovere i mansueti bovini ai quali si appoggia una ragazza melanconica. Nella parete di una rampa di scale della Casa di Gello, si volle rendere il senso del gioco nell’atto del salire e dello scendere. L’inclinazione della scalinata suggerì quella naturale e sensitiva di due figure sorridenti che provano diletto a Trarre l’un l’altra a sé (tav.18). Il continuatore dell’arte di Orbaneja si confuse nel disegnare le ali alle caviglie dell’Inclinazione, per cui ne vennero fuori svolazzanti panneggi. A simulazione di due finestre vennero poste l’una dirimpetto all’altra le tavole dell’aerea Fata pellegrina mentre veste di una maglia filamentosa la campagna invernale, e della medesima viatrice addormentata nel Sogno della primavera (tavv.19,20). Chi può menare vanto d’aver profittato di un sì lungo lasso di tempo utile a scorgere attimo su attimo, nello sdipanarsi dei mille millenni, il lavorìo di scultura messo in atto dall’acqua e dal vento sugli amenissimi blocchi calcarei che signoreggiano le nostre e le altrui marine? Ciascun sogno pulsante nel sasso vorrebbe dissigillare la propria forma chiusa, per sortire dall’isolamento del suo essere isola, ma non c’è cristi! Si commosse l’arcontessa pensando a quelle creature sussistenti nella condizione d’un isolotto, spesso impenetrabile, e vi fu gran discussione nella corte: a chi diceva ciascun uomo essere un’isola altri ribattevano nessun uomo essere un’isola. Alla disputa pose fine l’arconte ingiungendo al tardo emulo di Orbaneja di rappresentare senz’altro due opposte scene, titolando l’una Chiamalo sonno e l’altra Il risveglio (tavv.21,22). Nella prima figurano donne ciascuna chiusa come la marmotta nella propria complessione invernale in uno spazio fallace e oscuro. Saranno esse i Sogni sdraiati, accoccolati appoggiati attorno all’invisibile Sonno. Non ricordo quali di essi siano da intendere alla stregua di “sogni veri che mostrano le cose nella loro reale apparenza”, e di sogni altrimenti illusori ma non meno necessari dei primi. L’epigono di Orbaneja era attratto dai panneggi che conferiscono un qualcosa di misterioso ai corpi umani, con il capriccioso movimento della stoffa che allude ad ogni sorta di sfuggenti figure. Pretendeva perfino che l’osservatore avesse a perdersi o rifugiarsi nella cartografia di quelle volute, ora rigide e decise ora arrendevoli e molli. Vallate, canali, dorsi stondati, crinali, vette, golfi, voragini usciti dall’opera di un sartore distratto, chiamato suo malgrado a vestire l’Inerzia e il Sonno. Finché giunge il Risveglio d’aprile. Come la marmotta sorte dalla tana i corpi sognanti si scrollano dal torpore “aprendosi come gemme delle piante”. Incomincia una sorta di danza dove corpi pesanti si fanno leggeri, cercandosi e trovandosi in un affiatamento fino ad allora impensato e in una tinta quasi monocroma, a significare l’unità degli intenti.

 


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Quando sottoposi ai ludoarconti questa volonterosa trascrizione dei pensieri sottesi alle figure della Casa di Gello, mi fu risposto con la consueta benevolenza che se niente avevo compreso, meno di niente valevano le mie parole all’intelligenza delle suddette storie, le quali richiedevano soltanto lo sguardo per decretarne la locale convenienza o il più vasto biasimo, come già fu detto in principio.

 
                                                                                                   Tristano Ilari

 

 

Sono qui riprodotte, nell’ordine: tav. 1; tav. 11, particolare; tav. 6; tav. 2; tav. 22; tav. 3; tav. 12.