martedì 25 settembre 2012

Andrea Alfieri, Fotografo




Gravure


Dubai, Parigi, Istanbul, Londra sono le città che Andrea Alfieri ci presenta[1] accendendo il nostro stupore. “La città inattesa” è infatti il titolo del testo con cui lo studioso, Antonio Natali, individua acutamente i caratteri dell’opera di Alfieri . Un titolo che l’Editore Skira ha intelligentemente fatto proprio per il suo volume monografico, in quanto rivelatore del modo nuovo, decisamente inconsueto, attraverso cui l’occhio del Fotografo ci racconta codeste capitali, impossessandosene.


Alfieri è quasi maniacalmente, direi, innamorato della luce. Della luce e del contrasto. Anche se, paradossalmente, chi osserva le sue opere, troverà quasi esclusivamente scatti in luce diffusa. Proprio quella che del contrasto, dei facili e spettacolari – e banali – effetti visivi, è nemica mortale. Infatti alla luce il Fotografo chiede di penetrare ogni dove, di descrivere puntigliosamente la forma in ogni più minuto particolare, tanto che, ad un primo impatto con i suoi lavori, possono venire alla mente certi pittori tedeschi a cominciare da Dürer o certi altri olandesi del secolo successivo, richiamati da alcuni accenti di colore morbido e delicato, della stessa nitidezza cristallina che si può rammentare nell’opera di Vermeer. Potrebbe pure venire da domandarsi se certi settecentisti che attraverso la “camera ottica” parevano voler anticipare l’immagine fotografica non trovino qui l’opposta ricerca. Una fotografia, cioè, che pare ambire all’incisione: più al bulino, insomma, che alla “scrittura”.


Alfieri, infatti, da professionista sapiente, sfrutta al meglio le prerogative del nuovo mezzo digitale, che dà il massimo, quanto a “descrizione” dei particolari, con la luce diffusa (quella del resto che prediligeva Leonardo, proprio perché meno ingannevole). È dopo, nella successiva fase di “post produzione”, che ogni elemento capace di distrarre l’attenzione dal disegno degli oggetti, come per esempio un colore eccessivo, viene prudentemente desaturato, portando l’immagine al suo carattere di essenzialità, rendendola realisticamente tagliente, icastica. Quasi un bianco e nero prudentemente acquerellato. È una misura, quella della “prudenza”, del “limite”, che Alfieri conosce bene: è il frutto di decenni di professione, di lavoro in “camera oscura”, di accurato controllo di ogni fase, dallo scatto alla stampa finale. Ma ciò non sarebbe affatto sufficiente. Andrea Alfieri va ben oltre il “perfetto” artigiano. È assai più di ciò.  A tutti codesti elementi, che sono peraltro indispensabili prerequisiti si deve aggiungere un forte senso delle cose ed un raffinato gusto estetico. Eppoi c’è l’occhio! La capacità di cogliere e nello stesso attimo saper condensare ogni sapere acquisito. Il tempo di riflettere non c’è. Certe foto altrimenti non vi sarebbero.


Ma la foto di Alfieri è – anche – sempre sapientemente composta. La ricerca della struttura compositiva più efficace è ogni volta perseguita con puntiglio: parrebbe quasi frutto di lunghi tempi di riflessione. Come si spiega? Segue parametri classici, come ha colto acutamente Antonio Natali: “Il linguaggio d’Alfieri – diremo allora – è radicato nella tradizione della pittura italiana. I tagli delle sue fotografie non possono prescindere dal grande cinema del Novecento; però la costruzione delle sue immagini si fonda sull’esperienze prospettiche dell’umanesimo quattrocentesco. Riferimento – questo – che parrà tanto più palese quanto più si rifletta sulle sue scelte scenografiche. Le sue visioni urbane sempre rivelano una predilezione per le fughe spaziali: finestre che s’inseguono in serrate sequenze geometriche, dove le figure umane si muovono solitarie come nelle istantanee di Hopper. E poi – frequenti – gl’imbuti prospettici; alla stregua di moderne ‘tavolette’ brunelleschiane...” Così ogni linea, ogni forma è come e dove deve essere. Le verticali non pendono mai e ogni cosa aderisce a una profonda esigenza di rigore formale. Verrebbe benevolmente da pensarle come nate, talora, in funzione didascalica, attagliandosi perfettamente ad un manuale di composizione.


E allora, si dirà: il contrasto? Già, il contrasto. Proprio quello! In ogni foto di Alfieri si coglie un contrasto forte. Londra e Parigi non contrastano forse decisamente con Dubai e Istanbul? Occidente e Medio Oriente: il lento e inesorabile declino contro il rapido, devastante e contraddittorio sviluppo. Ma non è qui che si deve cercare, dato che potrebbe essere un caso. In ogni scatto è presente un elemento che ci fornisce – per contrasto, appunto – la misura della grandezza. Così le nuove, le immense strutture architettoniche, astratte e indefinibili altrimenti, appaiono quasi spaventose al confronto con l’elemento umano, casualmente, inopinatamente presente.  Le sacche della miseria più profonda che resistono quasi come mondi paralleli e fatalmente inconciliabili alla ricchezza smodata delle nuove architetture urbane. Verrebbe quasi da definire “metafisico” un tale spaesamento. Ma siamo talmente abituati dai media a “digerire” ogni paradosso che è meglio attenersi ai dati oggettivi. Insomma, in Alfieri la ricerca della forma, come facilmente si coglierà, non è mai fine a se stessa. Le scale sono scale e restano tali in quanto vi è sempre qualcuno che le scende o le sale, così le immobili ombre portate, che disegnano inconsuete, immense geometrie, assumono senso di realtà dall’impiegato che vi si affretta dopo la pausa pranzo. Oppure una macchina operatrice coloratissima, nuova, lucente, invasiva, si frappone fra noi e il monumento.

u.s.




[1] Pistoia, Sale Affrescate del Comune. Inaugurazione 27 settembre, ore 17. La mostra resterà aperta fino al 2 ottobre. Nell’occasione verrà presentato il volume di Skira “La Città Inattesa”, dove lo studioso Antonio Natali, attraverso un vasto corredo di splendide immagini presenta l’opera di Alfieri.

(http://www.skira.net/andrea-alfieri.html?___store=en&___from_store=default)


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