Riproduco
qui, in una sede certo inadeguata e impropria, il ricco e gustoso testo con
cui Tristano Ilari*, spiega con dovizia, attraverso un raffinato gioco di
richiami artistici e letterari, sciolti con sottile ironia nel divertimento di un
linguaggio assai singolare, le opere con le quali Edoardo Salvi, pittore,
incisore e saggista, ha decorato gli ambienti della Casa di Gello, una
struttura che da due anni ospita “alcuni soggetti autistici adulti”. Il ciclo
decorativo, commissionato all’autore dalla Fondazione Cassa di Risparmio di
Pistoia e Pescia, è stato presentato al pubblico venerdì 17 ottobre 2014.
* (pseudonimo
dietro al quale – immagino – “cerca” di nascondersi, per il pudore che lo
caratterizza, Edoardo Salvi)
LEGGENDA
“Orbaneja, un pittore di Ubeda, a cui fu chiesto che cosa stesse dipingendo, rispose:”quel che ne verrà fuori!” E un’altra volta dipingeva un gallo, ma così brutto e poco somigliante che gli si doveva scrivere accanto in lettere gotiche: “Questo è un gallo”.
Miguel de Cervantes,
Don Chisciotte della Mancia
In quel mondo sobillato da
incantatori d’ogni specie dove primeggiano arcifanfani, guastafeste e
rompiscatole, vi sono pure incantatori benevoli, propizi a sollevare dalle più
provate spalle un po’ del carico gravoso delle loro pene, a favorire i desideri
covati negli animi più virtuosi e a dare forma e figura a certe graziose
immaginazioni che volano a mezz’aria. In quel mondo c’è una casa spuntata per
incanto laddove cadono certi lembi del verde manto di Appennino, e dove Ombrone
suo figliolo si è da lungo tempo fatta la propria strada con caparbietà,
superbia e rassegnazione. La Casa, detta di Gello, è posta sotto la
giurisdizione di Lucerno Rondone, ludoarconte o arcolude delle terre di
Buonavolontà. Lucerno, rampollo d’una pianta che si dice millenaria e sua
moglie Agrifoglio Liberanosamalo, ebbero occasione di ospitare con sommo
diletto l’arciillustrissimo Don Alonso Chisciano e il suo scudiero di ritorno
da Lucca, ascoltandone sentenze e ricavandone insegnamenti dei quali avrebbero
fatto tesoro. L’incontro con il cavaliere dalla triste figura suscitò
nell’immaginazione dei signori di Buonavolontà un insieme di fantasie ed
invenzioni, che richiedevano di essere delineate e messe in tinta in maniera
conveniente e in vivide forme per decorare la suddetta casa. Toccò invece a un
creato di quel tale Orbaneja, autore di più di sette insegne nella città di
Ubeda, dipingere l’insieme delle storie, ovverosia capricci, rendendo oltremodo
necessaria quanto gravosa la spiegazione di quelle. All’impresa si disposero
graziosamente gli stessi arcoludi dalla cui viva voce intesi, se non tutto e se
non abbastanza, almeno quel poco che con qualche approssimazione ho cercato di
trascrivere. Secondo l’intenzione di Lucerno e Agrifoglio, si dovranno
intendere le tavole applicate sulle pareti della Casa di Gello quali pagine da
considerare di sfuggita nei momenti d’ozio, suscitando qualche fantasia
consolatrice al pari di una perfetta indifferenza o mutevole senso di fastidio,
a seconda dell’indole e della complessione del riguardante.
Ecco
dunque in principio raffigurati in un tondo la Vera
immagine del cavaliere mancego con il suo
ineluttabilmente fido Ronzinante, nonché il più eletto fiore, ovverosia
ortaggio degli scudieri, il mai dimenticato Sancio Panza, capace al pari di
Pinocchio di intendere e parlare il dialetto asinino e di scambiare con il
proprio asino le più tenere effusioni (tav.1). Insegnò Don Chisciotte a vedere
al di là della superficiale apparenza gli esseri più fragili, come in effetti
ogni virtuosa persona è tenuta a fare. Avendo pieno diritto gli avversati dalla
fortuna di figurare in bellezza e nobiltà nel loro mistero, penetrabile a chi
ha avuto per dote naturale, o per forza di educazione l’attitudine allo sguardo
interiore. Mantenere la massima dignità nella perdita dell’equilibrio fu per
Don Chisciotte, campione dei senza campione, merito incommensurabile. Principe
degli squilibrati, vessillo degli squinternati, nessuno fu grande come lui
nella caduta e nella disfatta. In tal senso sono state figurate, per
derivazione, due immagini di Equilibristi o Saltimbanchi
incuranti delle leggi di gravità e intenti a considerare il mondo dal basso
elevando verso il cielo le loro basi o piante o radici, sostenuti da
fedelissimi cani che non disdegnano per fedeltà l’inusitato gioco (tavv.2, 3).
Come per tutto è vulgata la voce, nessuno fu come Chisciotte maestro dei
perdenti, stella polare degli abbattuti, luce dei frastornati, scudo degli
abbarbagliati. Ossuto simulacro tendente alla linea retta spedita sulla via
dell’infinito anzi, sogno stesso della rettitudine in quelle vaste lande, dove
il groviglio inestricabile ha soppiantato perfino le vie dei più capziosi
rabeschi.
A temperare la giustizia
irruenta di Chisciotte e gli anarchismi spaziali degli equilibristi sia
benvenuta la circospetta Tartaruga, a prima vista più indolente di Sancio (tav.4).
Essa conforta i volontari o inconsapevoli adepti del cavaliere errante
ispirandogli, col flegma tartarughesco, il poco conto in cui si debbono tenere
le avversità, resistendo con la corazza forgiata per ognuno di noi dalla natura
all’impeto delle grandinate e al turbine delle legnate. Armatura che non si
toglie, ferma e sicura come la sapienza, la corazza della Tartaruga sostiene il
peso del destino terragnolo illuminato dal globo lunare che permette di farsi
strada nel buio dello sconforto. Quando poi tale sconforto è indotto dalle
questioni di lana caprina, dalle quisquilie cresciute come montagne, dalle
tensioni in procinto di spezzare i filamenti dei nervi, gli illuminati e
mansueti arcoludi ordinarono al discepolo di Orbaneja la tavola del Torneamento (tav.5). In essa i
campioni dei contendenti sono e saranno nient’altro che automi melanconici, non
uomini e cavalli in carne sangue ed ossa, ma fantocci velati di mestizia che
dovranno cozzarsi incocciarsi spezzarsi affettarsi scaraventarsi gli uni sugli
altri e gli altri sugli altri ancora, per poi ricomporsi con bizzarro disordine
ricominciando da capo fino a non poterne più, trovando finalmente l’accordo per
avvenuto sfinimento che è sorgente di anelata concordia. Comandò l’arconte
Lucerno due Allegorie canine che niente avessero del canagliesco, bensì
fossero insignorite al rango d’un Can Signorio o d’un Can Grande e, come tali,
atte a dominare la disputa della canea, il sopruso della ribalderia,
l’insolenza dell’uccellatura (tavv. 6,7). Nell’una delle due tavole si vede un
cane rovesciato posto a significare quel che ogni riguardante vorrà discernere,
considerando a scusante dell’autore ch’egli lo pitturò sotto l’imperio della
canicola, annunciata appunto dalle coppie di cani. Il connubio delle edificanti
significazioni riposte nell’impresa canina, valgono altresì come incitamento
all’agire dell’umano consorzio in specie nella vigilanza fedele, nella grata
amicizia, nella memoria odorifera, anche se merita riprovazione il connubio tra
fame e golosità. L’osservatore attento potrà poi scorgere una parete rimasta
bianca, sulla quale incombe come esempio di candore virginale l’Opera Assente, gravida di ardui concetti
e interni travagli. Sia per non tradirne lo spirito, e ancor più per averne io
dimenticato gli esatti termini, distratto, come fui, da un pappagallo
dell’arcolude intestardito nel recitare certe litanie, passo senz’altro ad
illustrare il successivo capriccio intitolato La solitudine del satiro, o La solitudine di Pan, stante una certa
confusione generata tra i due personaggi (tav.8). In omaggio alla terra di
Chisciotte, l’arconte prefigurò un retablo vastissimo, interrotto poi al primo
ordine di cinque scomparti, a causa delle disposizione contenute nella Dieta
degli arcoludati. Al centro si vede l’uomo caprigno seduto alla sommità di
un’ara intento a suonare un flauto, le cui canne sono esempio di universale
armonia alla quale concorrono le diversità tutte. Le corna del satiro saranno
allora le corna raggianti del sole che vivificano di luce ogni creatura. Il satiro
caprigno, taumaturgo liberatore dagli stati febbrili, se sconcertò la ninfa sua
madre e tutti i supponenti arriccianaso, fu ben accolto dal padre suo Mercurio,
grazie al quale rallegrò con voce bizzarra il serioso Olimpo e in specie
Dioniso. Negli scomparti sono figurate colonne tortili a mo’ di finte gabbie
dove candidi ed ignari putti giocano con gli uccelli, una figura umana formata
dalla vegetazione di un giardino e ancora una campagna, dove il ragno tesse la
propria Palmanova e un satiro trasporta un sileno assonnato e restio ad ogni
impresa. L’arcolude impose insomma all’autore di figurare una favola silente,
della quale se pure ho perso il filo, ricordo il senso riposto nel favorire
quanti coltivano e si prendono cura del sogno ispirato dal mondo naturale, che
potrà essere reinventato solo dai marginali periferici, più prossimi di tutti
all’antica officina centrale della creazione. Di fronte al retablo interrotto
vedi il Lunettone occupato da certi corpi
femminili, fluidi e pieghevoli al pari del salice, usciti chissà come da certi
vasi apuli dissotterrati nella città di Ruvo (tav.9). Quei corpi teneri
scanalati a mo’ di buona pasta rigata ed impastata con l’acqua della buona
voglia si prendono cura delle galline, carni di facile digestione e creature di
debole considerazione, eppur dotate di insospettato vigore appena si rendono
capaci di alzare la cresta, vincendo il sopruso esercitato dai dominatori
d’ogni piccolo e grande pollaio. In certi corridoi della Casa di Gello si avrà
poi modo di incontrare proprio la tavola degli Incontri (tav.10). Corpi di
adolescenti e ombre di corpi, solidi e meno solidi, poco più che ombre.
Indifferenza, qualche sospetto, timidezza, ritrosia, e poi bisbigliare e
farfugliare e un certo armeggiare, un innocuo brigare. Poi c’è L’animazione (tav.11), duduf dududuf,
un tenersi bordone, un
cogliombereggiare ballando e saltando, e pulcinellando
provarsi provare a fare Sfessania e Cuccurucù. L’arcolude spiegando non disse
di più, ma l’arcoludessa, che pure acconsentiva con discreti battiti delle
ciglia alle parole del consorte, volle metterci del suo è ordinò che quella
danza buffa e grottesca si tramutasse in qualche distinta evoluzione,
altrettanto bizzarra ma più ariosa e ordinata, come poteva ottenersi da una
giocosa equinomachia. Il seguace di Orbaneja condusse alla propria maniera due
tavole dove intese figurare la liberazione del cavallo dalla propria condizione
di servo di Marte, di Mida, di Mercurio e da tutte le infauste conseguenze del
peccato originale. Giocando maldestramente sul significato di equus, le
intitolò Equanimi danze acrobatiche (tavv.12,13). Sostennero gli arconti come la
bella compagnia del cavallo avesse un effetto portentoso, liberando in certi
uomini l’energia, il senso dell’armonia e il piacere della convivialità,
compressi dal quel famigerato mago Frestone che tanto nocumento già ebbe a
recare a Don Chisciotte. Sulle tre tavole dedicate alle Storie di Pinocchio i ludoarconti
intrattennero una dotta conversazione, parecchio aumentata dall’intervento delle
menti più elette della corte (tavv.14,15,16). Si parlò di metamorfosi, di
incarnazione, di passione, di menzogna e verità, di disobbedienza e di castigo,
di derisione, di incostanza, di pentimento e finalmente di passione, morte e
resurrezione. L’arcolude concluse saggiamente che si dovesse senz’altro
ritrarre Pinocchio nel modo più franco e libero da reconditi significati, per
due volte insieme ai suoi tentatori e una volta in compagnia della sua
incomparabile protettrice. Il sogno di un ricordo o, se
vuoi, un ricordo
sognato qual si addice alla complessione arcana di taluni giovani amici dei
ludoarconti, unisce lungo la strada di un paese lucente, alcune figure che
l’autore pretese, addirittura, di delineare e tinteggiare nientemeno quali
apparizioni (tav.17). Nella tavola vi sarebbero, a sentir lui, melanconia,
mansuetudine e un grano di follia, tutte condizioni non solo tollerate ma
accolte in un paese abbastanza felice. La Puerizia col manto rosso sogna di
smuovere i mansueti bovini ai quali si appoggia una ragazza melanconica. Nella
parete di una rampa di scale della Casa di Gello, si volle rendere il senso del
gioco nell’atto del salire e dello scendere. L’inclinazione della scalinata
suggerì quella naturale e sensitiva di due figure sorridenti che provano
diletto a Trarre l’un l’altra a sé (tav.18). Il continuatore dell’arte di Orbaneja
si confuse nel disegnare le ali alle caviglie dell’Inclinazione, per cui ne
vennero fuori svolazzanti panneggi. A simulazione di due finestre vennero poste
l’una dirimpetto all’altra le tavole dell’aerea Fata pellegrina mentre veste di una maglia
filamentosa la campagna invernale, e della medesima viatrice addormentata nel Sogno della primavera (tavv.19,20). Chi può
menare vanto d’aver profittato di un sì lungo lasso di tempo utile a scorgere
attimo su attimo, nello sdipanarsi dei mille millenni, il lavorìo di scultura
messo in atto dall’acqua e dal vento sugli amenissimi blocchi calcarei che
signoreggiano le nostre e le altrui marine? Ciascun sogno pulsante nel sasso
vorrebbe dissigillare la propria forma chiusa, per sortire dall’isolamento del
suo essere
isola, ma non c’è
cristi! Si commosse l’arcontessa pensando a quelle creature sussistenti nella
condizione d’un isolotto, spesso impenetrabile, e vi fu gran discussione nella
corte: a chi diceva ciascun uomo essere un’isola altri ribattevano nessun uomo
essere un’isola. Alla disputa pose fine l’arconte ingiungendo al tardo emulo di
Orbaneja di rappresentare senz’altro due opposte scene, titolando l’una Chiamalo sonno e l’altra Il risveglio (tavv.21,22). Nella prima
figurano donne ciascuna chiusa come la marmotta nella propria complessione
invernale in uno spazio fallace e oscuro. Saranno esse i Sogni sdraiati,
accoccolati appoggiati attorno all’invisibile Sonno. Non ricordo quali di essi
siano da intendere alla stregua di “sogni veri che mostrano le cose nella loro
reale apparenza”, e di sogni altrimenti illusori ma non meno necessari dei
primi. L’epigono di Orbaneja era attratto dai panneggi che conferiscono un qualcosa
di misterioso ai corpi umani, con il capriccioso movimento della stoffa che
allude ad ogni sorta di sfuggenti figure. Pretendeva perfino che l’osservatore
avesse a perdersi o rifugiarsi nella cartografia di quelle volute, ora rigide e
decise ora arrendevoli e molli. Vallate, canali, dorsi stondati, crinali,
vette, golfi, voragini usciti dall’opera di un sartore distratto, chiamato suo
malgrado a vestire l’Inerzia e il Sonno. Finché giunge il Risveglio d’aprile.
Come la marmotta sorte dalla tana i corpi sognanti si scrollano dal torpore
“aprendosi come gemme delle piante”. Incomincia una sorta di danza dove corpi
pesanti si fanno leggeri, cercandosi e trovandosi in un affiatamento fino ad
allora impensato e in una tinta quasi monocroma, a significare l’unità degli
intenti.
*
* *
Quando sottoposi ai ludoarconti questa
volonterosa trascrizione dei pensieri sottesi alle figure della Casa di Gello,
mi fu risposto con la consueta benevolenza che se niente avevo compreso, meno
di niente valevano le mie parole all’intelligenza delle suddette storie, le
quali richiedevano soltanto lo sguardo per decretarne la locale convenienza o
il più vasto biasimo, come già fu detto in principio.
Tristano
Ilari
Sono qui riprodotte, nell’ordine:
tav. 1; tav. 11, particolare; tav. 6; tav. 2; tav. 22; tav. 3; tav. 12.