domenica 13 maggio 2012

Edoardo Salvi

Avviamento alla solitudine
Biblioteca San Giorgio, fino al 31/5*


Verrebbe facile, in quella selva di idee, di ricordi, di livelli della conoscenza, che affiorano in ogni opera di Edoardo Salvi, farsi prendere la mano, anzi lasciare briglia sciolta al piacere di scrivere e raccontare, e cominciare a scavare gli strati, proprio come fanno certi archeologi, che procedono scientificamente piantando picchetti e tirando cordicelle. E verrebbe facile, a ogni strato, all’emergere di ogni più piccolo oggetto della memoria, fare la propria bella figura rammentando ora certe illustrazioni strapaesane di Maccari, ora i “disperati” di Viani, ora Boccioni o la cultura mitteleuropea con Klimt, Schiele, Dix o Kokoschka (senza dimenticare le Cattive Madri o L’Angelo della Vita di Segantini – che in qualche modo paiono ammonirmi perché ricordi pure loro, forse per i seracchi azzurrognoli che fanno l’ambiente a improbabili femmine fluttuanti e brunastre –), o, ancora, certe “eleganze” del ’400 senese o del primo ottocento giapponese – che ciascuno oramai pretende di intravedere in ogni acquatico spumeggiare –.


Nel lavoro di Salvi ci sono, sì, quindi, una molteplicità di elementi, ma la forte personalità che li condensa, esprimendoli, è assolutamente genuina. Edoardo Salvi non cita (se non quando illustra o inventa memorabili scenografie teatrali), non indulge né si compiace della propria cultura, che si è “nascosta” in profondità connaturandosi. Né si coglie, fuori dalle opere, se non molto difficilmente, la spiccata originalità dell’artista, perché è ben protetta con abiti accuratamente normali, che lo rendono difficilmente accessibile a chiunque possa turbarne la “solitudine”. Per contro il suo lavoro, i suoi temi, le sue invenzioni formali potrebbero emblematizzare il concetto stesso di originalità, – per intendersi: niente a che vedere con le trovatine, da divertissement intellettualistico, di certi “pupattolari” impotenti o altri enfatici piegatori di lamiere arrugginite –.


Edoardo Salvi è originale sempre: quando pensa, scrive, dipinge. A rigore, malgrado il “tema”, che fa da perno al lavoro, possa essere unificante o possa esserlo anche la tecnica (adesso volutamente antipittorica), difficilmente riesci a trovare un collegamento fra un’opera e l’altra. Ciascuna è un mondo a parte (risponde a un diverso pensiero, a un nuovo stato umorale o a un differente sentimento), che aderisce, portandola in superficie, allo strato della coscienza, ad una oscura esigenza interiore. È costì, in interiore, che il lavoro trova il suo ordine (quel segreto numero di pagina da aggiungere al proprio Almanacco Perpetuo), che guida l’artista fino all’esaurimento del lavoro, per poi riprendere ex novo, con impennate di genialità inventiva, ora nella logorante ricerca della forma, ora nell’impeccabile composizione in un nuovo lavoro. Sembra, quasi sempre, che la ricerca, affidata alla linea che disegna e accarezza plasticamente oggetti e figure, ora definendo “tasselli” che “precipitano” in fluide strutture coerenti, o talvolta contrapposte, sia quasi ossessiva. Che risponda, cioè, ad una impetuosa, prepotente esigenza di armonia, dell’ordine che tutte le cose debbono trovare perché la tensione, l’affanno possano placarsi. Nei risultati, codesta forza, si avverte con chiarezza, parrebbe quasi animata da un vigore creativo di stampo romantico, se proprio la tecnica adottata (Pochoir), che richiede per ogni più piccola parte la complessa elaborazione di una maschera, non portasse invece a considerare nella direzione opposta. Paradossalmente, rispetto al risultato, il cui impatto è spesso, innegabilmente, “espressionista” – l’acme del romanticismo –, verso una pratica di un rigore “bizantino”, ovvero accuratamente, puntigliosamente artigianale (in senso alto, come quella immaginata da William Morris o della maggior parte dei raffinati manufatti Art Nouveau). Anche nel colore non c’è compiacimento, nessuna indulgenza verso accostamenti scontati né verso il gusto corrente. Anche il colore infatti, al pari della forma, è strumento, talora volutamente stridente, antigrazioso,  per stravolgere intenzionalmente la consuetudine naturalistica, quasi a voler sgombrare il campo da ogni equivoco che una qualche apparenza umana potesse generare.


Salvi si sofferma sul tema della solitudine, anzi, pare questo il filo che collega intimamente il suo lavoro: “l’infinito vuoto, l’infinito niente…”, la consapevolezza dell’inutilità e al contempo la “dannazione” della creazione, del lavoro di cui l’artista non può fare a meno: quasi una malia, un sortilegio incurabile. Da qui, forse, lo spaesamento, l’approdo costante a un mondo dell’assenza, nel quale gli interlocutori sono di carta e parole, o restano fissamente distesi su imprimiture di gesso, in cornici intagliate, nel silenzio perenne di musei e navate. Indifferenti anche loro alla chiassosa assenza di interlocutori che abbiano occhi.
u.s.

* Le opere che qui vengono presentate sono esposte, assieme a molte altre, fino al 31 maggio 2012, alla Biblioteca San Giorgio, in Pistoia. La mostra che le raccoglie, promossa dall’Associazione Oltre l’Orizzonte, s’intitola “Faccia a Faccia” ed è l’inizio di un progetto che ha per tema “La solitudine: il pieno e il vuoto”.

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