Tempo addietro
(eppoi più recentemente nella Sua mostra personale, nella
“Cattedrale”, durante l'ultimo mercato antiquario), ho visto
alcuni ritratti fotografici eseguiti da Fabrizio Zollo: si tratta di
bellissimi bianco e nero, stupefacenti per la loro inconsueta
qualità, molto diversamente, proprio, dall'infinita quantità di
“robaccia” che circola fino a nauseare (oscillando fra la
banalità di certe pose erotiche – prevalentemente maldestre e di
cattivo gusto – e le stucchevoli melensaggini con cui si celebrano,
in certi spazi virtuali, le fattezze della cugina, dell'amante o
l'egocentrismo di certe aspiranti modelle).
Queste foto di
Zollo, invece, colpiscono per la loro essenzialità, per la loro
sincerità (anche nell'invenzione). La scelta del bianco e nero
contribuisce a sgombrare il campo dall'equivoco naturalistico, mi
pare, chiarendo subito che altro si cerca, che di altro si tratta,
anche se, molto spesso, il dato psicologico che caratterizza il
ritratto avvivandolo, benché sia soltanto uno degli elementi
dell'immagine, pare divenire preponderante, richiamando chi osserva
nel territorio del reale, del sensibile, dell'umano.
Sembra che Zollo si
diverta a giocare con la modella servendosi della luce, ma,
diversamente da molti fotografi, nei suoi scatti si coglie l'artista,
che si esprime con diversi accenti, ora del pittore, ora scultore o
addirittura xilografo, in specie in certi ritratti assai contrastati,
quasi intagliati con la sgorbia, che ricordano “pagine”
espressioniste, dove il bianco della luce si spartisce lo spazio
equilibrando misteriosi, impenetrabili “blocchi” d'ombra. Ma
gioca anche con l'immagine “finita”, che talora predispone, fin
dalla posa, e poi con intelligenza piega o addirittura capovolge per
accentuarne l'efficacia, per conferirle un significato più
enigmatico, talvolta dal sapore decisamente teatrale, cosicché anche
la luce muta il proprio effetto, convertendo la figura in una specie
di polveroso bassorilievo di stucco.
Predilige,
infatti, la luce naturale, quasi orizzontale, dello studio, che
lascia distendersi con larghezza di “pennellata”, se non più
corposamente, pare, come con la spatola, indagandone l'effetto sulla
modella alla ricerca della “forma perfetta”, ovvero, con la
massima incidenza, per descrivere, con esattezza puntigliosa, quasi
“nordica”, l'eleganza delle forme, la morbidezza seducente della
carne (paradossalmente mi viene da pensare al marmo del Bernini),
oppure la più fascinosa plastica anatomica, colta nell'accentuazione
chiaroscurale.
Quando,
invece, non la diffonde per tutto, come usasse un largo e cedevole
pennello di martora, accarezzando i corpi con leggerezza,
con esiti di vaga impronta vermeeriana, in ispecie se coglie la
figura in attimi di domestica intimità. Altre volte inventa posture
impeccabili, “neorealiste”, o sinuosità giocose e insolite,
esotiche, con maschere di gusto felliniano, brillanti divertissement
che gli consentono di emblematizzare l'eterno femminino, nella sua
essenza immutabile, das
EwigWeibliche,
come voleva il Goethe.
Ma per quanto
l'artista, in molti casi, immagino, sia coinvolto e interagisca,
inevitabilmente, con la modella, (il cui aspetto e carattere possono
addirittura condizionare l'invenzione stessa dell'immagine), non può
egli prescindere dalla propria personalità, in cui sono condensate,
in un inestricabile tutt'uno, sensibilità personale, gusto estetico,
cultura, esperienza (anche tecnica, che non guasta punto). Sono
elementi, codesti, che nel lavoro di Zollo non mi paiono per niente
secondari, e che, anzi, risultano dominanti, anche rispetto al
portato psicologico, benché esso, per primo, possa balzare
all'occhio e talora risultare fuorviante.
Sì, a tutta prima,
parrebbe che quasi non ci fosse altro: una semplice immagine, un
ritratto in bianco e nero. Tutto lì. Ma a ben osservare la questione
non è così semplice, anche se in codesta apparentemente elementare
schiettezza risiede la forza dell'immagine, talora la sua efficacia
icastica. C'è, come sottotraccia, infatti, un ricco tessuto di
elementi strutturali, conoscitivi, emotivi, che “regge” e fa
“funzionare” l'immagine, andando ben oltre il dato psicologico e
ogni qualsivoglia altro elemento che attiene la modella. Com'è per
ogni forma d'arte che si rispetti, dietro la “carne” che si vede,
c'è un impianto astratto raffinato, la
ricerca di un'eleganza formale, che mi pare costituisca anche qui il
fattore portante, l'armatura che anima, come sarebbe per dei modelli
in argilla, l'intero lavoro di Zollo, quell'astrazione verso la quale
anche l'assenza del colore sembrerebbe volerci orientare.
.
Compaiono qua e là,
ora più evidenti ora inconfessati, sottintesi, tantissimi indizi che
possono svelarci codesta sua personalità, segnali capaci di
metterci sulle tracce delle sue passioni d'artista e che paiono fare
un unico corpo con la formazione estetica del fotografo, il quale
nello scegliere, nell'inquadrare e ruotare l'immagine, nel decidere
fra morbidezza e contrasto, esprime l'essenza della propria
personalità, del proprio background culturale. Un mondo che
qui si ritrova in filigrana, nell'eleganza raffinata e decisa di
forme e invenzioni che evocano a volte opere della classicità, o,
più spesso, risalendo il tempo verso noi, maestri come Vermeer e
Degas, Lautrec oppure Rodin e certe tensioni formali (esasperazioni?), più
marcatamente espressioniste, di Egon Schiele, per non dire del vasto
repertorio fotografico neorealista, solo per citarne qualcuno, ovvero
gli indizi che ho più immediatamente percepito.
Umberto
Semplici