Caro
Antonio, Caro Edoardo,
avevo
pensato di scriverti fingendo con me stesso di poter continuare a parlare con
te come sempre, come se nulla in questi giorni, dall’ultima volta che ci siamo
visti, fosse accaduto. Pensavo di potermi tardivamente inserire nelle questioni
sul mondo greco-romano che, quasi, sequestrarono te ed Edoardo, mentre io,
ammirato da tanta passione, fra una portata e l’altra, seguivo incuriosito.
Anzi, ti dirò, mi ero quasi inteso di confutare – con l’evidenza degli ultimi
giorni – il vostro Seneca, proprio su
alcune considerazioni che – guarda caso –, sulla morte, ricorrono qua e là
nelle sue opere. Del resto, ho pensato, se la morte è un fatto sociale, perché
si muore agli altri (essendo a rigore impossibile venire meno a se stessi –
come giustamente sostiene il Gentile –), continuiamo dunque i nostri
ragionamenti, come se Lei non fosse passata. Come se Necessità ancora non
avesse deciso. Intendevo, caro Antonio, caro Edoardo, seguitare allora codesti nostri
ragionamenti, ma – eppure già lo sapevo – è impossibile: tu non mi rispondi. Il
mio cuore voleva piegare a sé la ragione e condurla su una via impercorribile.
La realtà, quale che sia, quando è decaduta a fatto, non si piega. È e
resta quella che è, inesorabilmente. Ci sei ancora, ma stai lì davanti e mi
guardi, muto; oppure attraversi la piazza, mi vieni incontro… Sei, oramai, come
gli altri amici e maestri che già se ne erano andati, e ai quali, primo Gian
Lorenzo (del quale ben sai), continuo a rivolgermi interrogando senza ottenere risposta,
se non quella che, fingendomi loro, con due parti in “commedia”, ottengo da me
stesso. Così, come vedi, come vedete, il deserto cresce all’intorno, il coro
delle voci pian piano conquista il silenzio e di alcune mi rammento solo
lontana eco, distorta dalla memoria che invecchia, anch’essa fatalmente, fino a
che cesserà, come tutto quel mondo.
E, d’altra
parte, perché la ragione, per rivolgermi a te, caro Amico? I pensieri si
perdevano per strada annodandosi confusamente fino a risultare contorti,
inestricabili; così le citazioni, necessarie cerniere dei ragionamenti su certi
autori, suonavano oramai fuori luogo. Non potevo, quindi, che scriverti col cuore,
coi sentimenti, con la nostalgia. Del resto, “costì”, ne sono certo, la tua
ragione, troverà ben altro pane per i suoi denti, tanto, quasi quanto la tua
Fede troverà luminosa soddisfazione. Così, pensandoti come non mai, ho
ritrovato nella memoria ricordi lontani, della primissima infanzia – forse
ancora non andavamo a scuola –, mi sono rammentato, attraverso immagini
vividissime, del tuo bel cinturone, con fondine e revolvers, di cui (forse
anche rendendomi ridicolo, vista la circostanza) ho anche scritto a Carolina;
del “gorello” che attraversava i campi di Bruno; degli allori su cui salivamo
nel “boschetto” vicino casa, fra le residue macerie dei bombardamenti. Ho
rammentato, purtroppo oramai senza poter condividerlo con te, l’odore
particolare che aveva l’Ombrone, quando calava l’acqua per il caldo e le pozze
restavano leggermente colorate per gli scarichi della cartiera. Ho rivisto con chiarezza cristallina tuo
padre, Dino, tua madre, Luca, e la piccolissima Amelia, in una piazza di paese
assolata che pareva una tela di De Chirico, delle migliori. E poi, molto dopo, ho
ben presenti le nostre lunghe passeggiate domenicali, ora su un bagnasciuga
invernale, dal molo al Lido di Camaiore, o più spesso a Lucca, sempre in
brumose mattine, per antichità o per il solo piacere delle vie cittadine. I
banchi dei librai, lungamente. O, ancora, ad esplorare, scavalcando come ladri
la recinzione, ciò che resta dei fasti di Villa Calderai, luogo misterioso sui
colli di Santomato, che esercitava in te
una forte, inspiegabile attrazione.
Poi, la
memoria, si è fatta recente, al tempo in cui la tua malattia ha acceso in te
fondati timori, paure giustificate, oscure premonizioni. Cercavi di far
scorrere ogni cosa fra gli argini della normalità, ma ogni tanto affiorava
qualcosa, come se una spina crudele, ad ogni movimento, fosse lì ad avvertire
della propria presenza rovinandoti l’ora, la serenità del momento. Sapevi nascondere
bene, Amico mio, dietro a quella forzata, voluta normalità di comportamenti, di
lavoro.
Solo i
più attenti e sensibili fra i tuoi interlocutori si sono accorti che quel tuo
blog era una sorta di specchio, forse. Come dire: una finestra attraverso cui
guardare dentro, attraverso cui accorgersi di un’altra realtà, di una esistenza,
di occhi e sentimenti differenti attraverso cui guardare il mondo. E tu, di là,
dettagliavi ogni giorno con particolari, quella sorta di autoritratto, alla
realizzazione del quale ti industriavi complicando e chiarendo a un tempo, aggiungendo
piani differenti: gli strati di una personalità ricca, complessa, nella quale
anche gli elementi occasionali, incidentali sono sottoposti ad una elaborazione,
vagliati da un ricco filtro culturale e da rigore etico. Certo a qualcuno sarà
parso narcisistico, auto celebrativo, vedere tutte quelle foto, alcune, talora,
anche “private”, ma io, caro Antonio, so benissimo che non è così. So benissimo
che quando si sbircia attraverso le imposte socchiuse può accadere di scorgere
un attaccapanni o dei piedi sul bordo di un letto. Era, per te, credo, ogni
volta la conquista di un giorno, come pizzicarsi per sincerarsi dello stato di
veglia, per sincerarsi della propria corporeità, quando se ne avverte, come nel
tuo caso, la condizione precaria. Ed era un modo per affermare, attraverso gli
scritti: – Eccomi! Sono qua! Sono questo!
Così,
negli ultimi mesi, oltre ai pensieri sulle nostre quotidiane bagattelle (italiche
e locali), hai scritto anche pagine di acuto senso morale, hai fustigato i
costumi con ironia, hai lasciato impronte significative delle tue capacità come
scrittore, del tuo pensare profondo e della tua Fede sicura, senza incertezze –
invidiabile –.
Rendo
pubblica questa lettera nella convinzione che ti faccia piacere, intendendola
come un umile, minimo riconoscimento al tuo valore, che va ben oltre l’affetto.
Un modo, questo, ancorché limitatissimo, per richiamare quanti, preoccupati di
realizzare i propri “disegni” clientelari, le proprie “esigenze” di bottega, finsero
di non vedere quanto valevi e ti ostacolarono in ogni modo possibile, privilegiando
insipienti e mediocri.
Gli Dei
sono stati più forti e decisi nel chiamarti a sé. E noi, che non ti meritavamo,
non siamo stati capaci di trattenerti (impotenti di fronte a quella Necessità,
cui lo stesso Giove deve obbedienza) proprio ora che il bisogno di
persone di prim’ordine si fa più sentire. Così, oggi, mio Caro, siamo tutti più
poveri, e non solo perché se n’è andato un amico!
Un
abbraccio,
Tuo,
umberto
P.S. Mi rivolgo, nella lettera, anche a
Edoardo Bianchini, http://quarratanews.blogspot.it/
, da decenni amico di Antonio Nardi. Assieme a Lui e ad Antonio, il 9 u.s., abbiamo
passato una bella serata – è a quella che ho fatto prima riferimento –. Ad Antonio,
con una malcelata punta di amarezza premonitrice, è piaciuto chiamarla “ultima
cena”.
Per notizie bio-bibliografiche su Antonio
Nardi: http://blog.studenti.it/domenicalaura/
La foto, scattata il 13 maggio 2011, è di Francesca Cecconi.
La foto, scattata il 13 maggio 2011, è di Francesca Cecconi.