domenica 20 novembre 2016

FABRIZIO ZOLLO (le foto)






Tempo addietro (eppoi più recentemente nella Sua mostra personale, nella “Cattedrale”, durante l'ultimo mercato antiquario), ho visto alcuni ritratti fotografici eseguiti da Fabrizio Zollo: si tratta di bellissimi bianco e nero, stupefacenti per la loro inconsueta qualità, molto diversamente, proprio, dall'infinita quantità di “robaccia” che circola fino a nauseare (oscillando fra la banalità di certe pose erotiche – prevalentemente maldestre e di cattivo gusto – e le stucchevoli melensaggini con cui si celebrano, in certi spazi virtuali, le fattezze della cugina, dell'amante o l'egocentrismo di certe aspiranti modelle).




 
Queste foto di Zollo, invece, colpiscono per la loro essenzialità, per la loro sincerità (anche nell'invenzione). La scelta del bianco e nero contribuisce a sgombrare il campo dall'equivoco naturalistico, mi pare, chiarendo subito che altro si cerca, che di altro si tratta, anche se, molto spesso, il dato psicologico che caratterizza il ritratto avvivandolo, benché sia soltanto uno degli elementi dell'immagine, pare divenire preponderante, richiamando chi osserva nel territorio del reale, del sensibile, dell'umano.






Sembra che Zollo si diverta a giocare con la modella servendosi della luce, ma, diversamente da molti fotografi, nei suoi scatti si coglie l'artista, che si esprime con diversi accenti, ora del pittore, ora scultore o addirittura xilografo, in specie in certi ritratti assai contrastati, quasi intagliati con la sgorbia, che ricordano “pagine” espressioniste, dove il bianco della luce si spartisce lo spazio equilibrando misteriosi, impenetrabili “blocchi” d'ombra. Ma gioca anche con l'immagine “finita”, che talora predispone, fin dalla posa, e poi con intelligenza piega o addirittura capovolge per accentuarne l'efficacia, per conferirle un significato più enigmatico, talvolta dal sapore decisamente teatrale, cosicché anche la luce muta il proprio effetto, convertendo la figura in una specie di polveroso bassorilievo di stucco.




 
Predilige, infatti, la luce naturale, quasi orizzontale, dello studio, che lascia distendersi con larghezza di “pennellata”, se non più corposamente, pare, come con la spatola, indagandone l'effetto sulla modella alla ricerca della “forma perfetta”, ovvero, con la massima incidenza, per descrivere, con esattezza puntigliosa, quasi “nordica”, l'eleganza delle forme, la morbidezza seducente della carne (paradossalmente mi viene da pensare al marmo del Bernini), oppure la più fascinosa plastica anatomica, colta nell'accentuazione chiaroscurale.






Quando, invece, non la diffonde per tutto, come usasse un largo e cedevole pennello di martora, accarezzando i corpi con leggerezza, con esiti di vaga impronta vermeeriana, in ispecie se coglie la figura in attimi di domestica intimità. Altre volte inventa posture impeccabili, “neorealiste”, o sinuosità giocose e insolite, esotiche, con maschere di gusto felliniano, brillanti divertissement che gli consentono di emblematizzare l'eterno femminino, nella sua essenza immutabile, das EwigWeibliche, come voleva il Goethe.





Ma per quanto l'artista, in molti casi, immagino, sia coinvolto e interagisca, inevitabilmente, con la modella, (il cui aspetto e carattere possono addirittura condizionare l'invenzione stessa dell'immagine), non può egli prescindere dalla propria personalità, in cui sono condensate, in un inestricabile tutt'uno, sensibilità personale, gusto estetico, cultura, esperienza (anche tecnica, che non guasta punto). Sono elementi, codesti, che nel lavoro di Zollo non mi paiono per niente secondari, e che, anzi, risultano dominanti, anche rispetto al portato psicologico, benché esso, per primo, possa balzare all'occhio e talora risultare fuorviante.





 
Sì, a tutta prima, parrebbe che quasi non ci fosse altro: una semplice immagine, un ritratto in bianco e nero. Tutto lì. Ma a ben osservare la questione non è così semplice, anche se in codesta apparentemente elementare schiettezza risiede la forza dell'immagine, talora la sua efficacia icastica. C'è, come sottotraccia, infatti, un ricco tessuto di elementi strutturali, conoscitivi, emotivi, che “regge” e fa “funzionare” l'immagine, andando ben oltre il dato psicologico e ogni qualsivoglia altro elemento che attiene la modella. Com'è per ogni forma d'arte che si rispetti, dietro la “carne” che si vede, c'è un impianto astratto raffinato, la ricerca di un'eleganza formale, che mi pare costituisca anche qui il fattore portante, l'armatura che anima, come sarebbe per dei modelli in argilla, l'intero lavoro di Zollo, quell'astrazione verso la quale anche l'assenza del colore sembrerebbe volerci orientare.





 
Compaiono qua e là, ora più evidenti ora inconfessati, sottintesi, tantissimi indizi che possono svelarci codesta sua personalità, segnali capaci di metterci sulle tracce delle sue passioni d'artista e che paiono fare un unico corpo con la formazione estetica del fotografo, il quale nello scegliere, nell'inquadrare e ruotare l'immagine, nel decidere fra morbidezza e contrasto, esprime l'essenza della propria personalità, del proprio background culturale. Un mondo che qui si ritrova in filigrana, nell'eleganza raffinata e decisa di forme e invenzioni che evocano a volte opere della classicità, o, più spesso, risalendo il tempo verso noi, maestri come Vermeer e Degas, Lautrec oppure Rodin e certe tensioni formali (esasperazioni?), più marcatamente espressioniste, di Egon Schiele, per non dire del vasto repertorio fotografico neorealista, solo per citarne qualcuno, ovvero gli indizi che ho più immediatamente percepito.
                                                                                                     Umberto Semplici